Il Babekkér

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Era il Babekkér curioso luogo di ritrovo di Torino, frequentato da un guazzabuglio festoso e confusionario di genti mischiate dalle più nobili alle più basse origini, dai figli di madre più distinta e conosciuta nobildonna a quelli di madre ignota, o meglio Misteriosamente ignota, come si diceva ai miei tempi(diventato poi, abbreviandolo alla moda americana, M-ignota).
I figli di Mignota sono parecchi,al giorno d’oggi: spero la cosa possa migliorare col tempo e questa trista razza di uomo estinguersi perché, ahimè, soffrono di una condizione che io considero assolutamente poco invidiabile.
Condividevo il mio pensiero ad alta voce col mio nuovo amico, quando si fece serio tutt’a un tratto, mi prese per le spalle e guardandomi negli occhi mi disse:
“Bada, ragazzo, che questi figli che tu vedi con pietà sono come le patate:crescono ovunque e senza che tu lo sappia,e se non verranno presto sterminati tutti, potrebbero giungere anche ad occupare alte cariche: non mi stupirei, tra qualche secolo, vedere lo stesso regno italiano governato da un figlio di Mignota.”
Annuii,serio, ma non gli diedi una grande importanza. Del resto, come potevo? Stavo andando a braccetto con un uomo che fino a mezz’ora fa piangeva con un cavallo e non conosceva il Babekkér!
Era quest’ultimo, dicevo, considerato alla stregua di un ritrovo, di un club, di un luogo dove trovare amici e amiche che condividevano con te una passione(pari a quella di Cristo) ed una croce(pari a quella di Cristo), quella dello spignattamento petulinario.
Non è un caso, credo, che questo termine,usato per indicare la preparazione di cibi del volgo ma anche qualcuno aristocratico di particolare portata meteorica,si sia poi evoluto col passare degli anni, trsformandosi da petulinario in “culinario”.

Giungemmo al locale, che all’esterno si presentava come un piccolo ma profondo arco incuneato nella distesa di case addossate tra loro spalla a spalla,vòlte a formare lo scheletro di quelle vie che avrebbero fatto la Storia di Torino.
Entrando in questo piccolo arco, si giungeva in un piccolo cortile interno,sovrastato da case popolari dai panni eternamente stesi e stazzonati dai fumenti delle cucine,eterne sentinelle di quel luogo dall’erba spettinata e dall’urina parietale facile.
Una scaletta sulla sinistra portava ad un fosco seminterrato dai vetri vagamente bruniti,onde evitare sguardi indiscreti, sebbene in effetti il luogo richiedeva più che altro protezioni da orecchie indiscrete: strane esplosioni controllate provenivano dall’interno, ma il vociare allegro non ne veniva minimamente scalfito.
“Che posto particolare!”,esordì il mio germanico amico a quella vista.
“Non preoccuparti, se temi per la tua pelle, qui puoi sgombrare i tuoi pensieri”, gli risposi pacificamente. Il luogo era un ritaglio sacro dalla città, un porto franco utile ad ogni uomo: nessuno si sarebbe mai dato la scure sui piedi, distruggendo questo idillio.
Un nitrito di cavallo lontano ma acutissimo viaggiò sulla brezza malsana e calda che aleggiava intorno e raggiunse i nostri timpani.
“Ah, detesto i macellai”, disse il mio amico.
“Non me ne parlare”,dissi,”vorrei avere tra le mani quelli che vendono loro quelle povere bestie per mostrare loro quanto soffrono”.

Entrammo.

Una confusione festosa e scura, piena dell’odore di cipolle e alcool, permeava l’aria.
“Ma cos’è un Babekkér? Puoi spiegarmelo ora?”
Alzando un po’ la voce per sovrastare il trambusto,gli parlai.
“Esiste qui a Torino un particolare piatto,importato dalle nazioni orientali e preparato in pochissimi ristoranti in occidente, chiamato kebab. Il kebab è un piatto buonissimo, ma è ricco di piccante e soprattutto cipolle e, sul lungo periodo, crea fastidiose eruzioni ventose intestinali.
“E’ perciò nato, qualche tempo dopo, l’unico babekkér (il kebab al contrario è babèk) occidentale nonché rigorosamente piemontese, ovvero questo luogo, in grado di venderti un concentrato di alcool,menta piperita, polenta, bagnacauda, noccioli di oliva, Rum e Novocaina, più una decina di ingedienti ovviamente segretissimi.
“Questa miscela quando entra nello stomaco gli mostra come lasciapassare la bagnacauda: questo sviene immediatamente e lascia passare il tutto direttamente nel tubo digerente.
Qui, avviene una particolare reazione: la polenta,in combinazione con gli ingredienti segreti si gonfia, inspira, e risucchia tutti i fumi gastrici presenti, fino all’ultimo.
“Quando tutti i gas sono riuniti in un unico punto, entra in gioco la menta piperita, che provoca un’esplosione interna nel pignattone e spara all’esterno tutti i gas presenti, dissolvendo contemporaneamente la pagnotta che si era creata.
“Con un’unica, enorme espulsione ci si libera istantaneamente dei problemi di ventilazione eccessiva”.
Nietzsche stette a guardarmi, assorto.
Poi si illuminò.
“Vuoi dirmi che dopo che avrò assaporato il babèk avrò finalmente libertà intestinale? Che non dovrò più declinare le sfide al sollevamento pesi per paura di sfiatamenti inattesi?”
“E’ così”,gli dissi, “o almeno fino al prossimo kebab..o alla prossima zuppa”.

“Evviva! Proviamolo subito!”, mi incitò.
E così, ordinati due babèk, chiacchierammo del più e del meno, in attesa che la bevanda facesse effetto.

Parlammo sorseggiando al banco, soffermandoci su vari argomenti, finchè, resi anche un po’ allegri dalla quantità di rum presente nelle bevande, ci aprimmo l’uno verso l’altro.
“A me non piace il caviale!”,dissi io.
“E io odio le galosce!”, rispose lui.
“Se c’è una cosa che non sopporto, è la cannella!”
“Anche a me, anche a me”,disse lui,”ma sopra ogni cosa, odio i funghi. Solo il loro odore mi crea crisi di odio e tic all’occhio sinistro!”
“Maddai! Non ci credo!”
“Te lo giuro!”,mi assicurò lui.
“In realtà, secondo me la Chiesa non è che una gran chiacchierona”,dissi io.
“Se Dio è ovunque, perché mai devo andare a cercarlo in Chiesa? E’ troppo faticoso!”
“Ben detto”, ruttò il mio amico.
“Il mio sogno segreto è quello, infatti, di costruire una enorme chiesa che occupi l’intera terra,così da non dovermi più muovere da casa!”, dissi io alzando il bicchiere.
“Bravo!”,disse l’arianone davanti a me,”un ottimo sogno! Seguilo finchè ne hai uno!”.
Sorrisi guardando il mio bicchiere. Già immaginavo le scenate impotenti che mi avrebbe fatto Don Dolo, il mio parroco, chiamato così a causa del suo modo di camminare dopo il rito del calice di vino. Non avrebbe finalmente più potuto impedirmi di fare la pipì nell’acquasantiera: gli avrei infatti detto “Prete! Scegli: o qui, o nella cassetta dei poveri. Altro posto non c’è!”
Riflettevo su questi pensieri, quando mi accorsi del velo di tristezza che aveva avvolto gli occhi del mio amico.
“Che c’è? Tutto bene?”
“No, niente. E’ che…pensavo al mio, di sogno.”
“E qual è?”
“il mio sogno…è volare.”
Non risposi. Era un po’ pretenzioso,forse, ma era un gran bel sogno.
E poi avevo di fianco a me Nietzsche, mica il mio affittuario Fino che mi confessava che il suo sogno era essere meno fino in certi punti e più fino in altri.
Improvvisamente, però, gli tornò il sorriso.
Disse:”Teniamoci stretti i nostri sogni, perché finchè un uomo ha un sogno, è un uomo. Finchè un uomo ha un sogno”,disse alzando la voce,”un uomo è vivo! Finchè un uomo ha un sogno”,disse quasi urlando,”ha una luce che sa dove condurlo! Cosa rimane,” disse urlando col bicchiere alzato e gli occhi stretti, “ad un uomo, se gli togli il proprio sogno? Niente se non..”
Qui si bloccò, a mezz’aria, immobile.
Per un attimo, quasi mi spaventai: strabuzzò gli occhi e rimase con la bocca aperta.Il frastuono intorno rimaneva assordante.
Poi, chiuse gli occhi,li strizzò, si fece rosso,poi violaceo in faccia, cominciò a digrignare i denti.
Quando stavo per alzarmi e chiamare il barista per lamentarmi delle noccioline sul bancone, aprì improvvisamente gli occhi e la bocca e urlò:
“KEINE GEGENSTANDE AUS DEM FENSTER WERFEEEEEN!!!”, ed un rombo di tuono terrificante risuonò per tutto il locale.
Per un attimo, tutti ammutolirono. Nietzsche si asciugò la fronte e si rilassò. Aveva uno squarcio enorme sul sedere dei pantaloni. Tutti lo guardarono.
Alzarono i bicchieri urlando “ALLA TUA SALUTEEE!”, e tutto riprese come prima. Mi rilassai anche io: nessuno sfugge al babèk.

***
Continua


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